Formazione

Il ruolo dell’OSS nella gestione del paziente infetto

La diffusione delle infezioni negli ospedali è un problema serio e di difficile soluzione che deve essere combattuto quotidianamente con tutte le armi a disposizione. Chiunque operi in ambito ospedaliero è tenuto a fare la propria parte, adottando comportamenti corretti e osservando tutte le direttive stabilite.

In particolare l’OSS, che è una delle figure maggiormente coinvolte nel processo di contenimento del rischio infettivo, deve essere molto scrupoloso nell’esecuzione delle proprie attività, sia che riguardino il paziente, sia che si riferiscano all’ambiente. Le funzioni dell’OSS sono finalizzate principalmente a conservare il benessere psico-fisico della persona assistita, proteggendola da eventuali pericoli. Infatti, le cure igieniche vengono praticate allo scopo di prevenire l’insorgenza di infezioni.

La mobilizzazione di persone costrette a letto per lunghi periodi viene attuata con l’obiettivo di ridurre la probabilità che si formino lesioni da pressione, possibili vie di accesso per i microbi. L’aiuto nell’alimentazione ha l’intento di scongiurare il rischio di disidratazione e il calo ponderale, condizioni gravi che facilitano lo sviluppo di microrganismi patogeni.

La sanitizzazione dell’ambiente e dell’unità di degenza mira a neutralizzare quei microrganismi che se rimanessero sulle superfici rappresenterebbero possibili serbatoi di infezione. Si stima che a causa delle infezioni correlate all’assistenza, il tempo di permanenza in ospedale sia di gran lunga più elevato rispetto ad un decorso senza complicazioni e questo comporta un notevole aggravio della spesa sanitaria non solo per i maggiori costi dovuti al prolungamento del periodo di degenza, ma anche per le terapie farmacologiche necessarie.

Alla luce di queste riflessioni, quindi, risulta chiaro che fare la propria parte non significa solo eseguire le procedure con correttezza e attenzione ma anche preoccuparsi di non trascurare alcunché. Invece spesso, per svariati motivi, ma in particolare per una sottovalutazione del rischio, si tende a tralasciare alcune attività, soprattutto quelle che si riferiscono all’ambiente, ritenendole superflue e inconsistenti.
Se però si tenesse bene a mente il fatto che i microrganismi possono vivere indisturbati, in alcuni casi anche per giorni o addirittura per settimane, sulle superfici inanimate e da qui trasferirsi sulle mani degli operatori che poi li trasportano da un paziente all’altro, certamente si opererebbe con maggiore consapevolezza e diligenza.

Le mani degli operatori rappresentano il veicolo sul quale “viaggiano” i microrganismi, ed ecco quindi che il lavaggio delle mani si configura come la prima misura indispensabile a prevenire la diffusione delle infezioni soprattutto nelle persone fragili.
Le persone ospedalizzate sono più vulnerabili e più suscettibili alle infezioni perché a causa di malattie o per via dell’età avanzata presentano una compromissione delle proprie difese immunitarie e quindi non sono in grado di opporsi con la giusta forza all’aggressione dei germi patogeni.
Il lavaggio delle mani dunque non deve essere inteso soltanto come un atto di difesa verso sé stessi ma appunto come un gesto di protezione nei confronti degli altri.

È un gesto fondamentale anche se da solo non basta. Ad esso devono essere aggiunte necessariamente altre misure che puntualmente vengono individuate dal comitato di controllo delle infezioni ospedaliere (C.I.O.).

Questo comitato è un organismo composto da figure professionali specializzate in varie discipline come igiene, microbiologia, epidemiologia, farmacologia, che si occupa di vigilare, monitorare e pianificare le strategie più appropriate per contenere il rischio di propagazione delle infezioni.

Tra queste, l’isolamento a scopo precauzionale del paziente, all’ingresso in reparto. Una misura necessaria, fintanto che non sia stata accertata, attraverso vari esami, l’assenza di patogeni che facilmente si diffonderebbero tra i degenti. Oltre a ciò, il controllo di alcuni punti ritenuti critici, in quanto verosimilmente contaminabili, come ad esempio le sponde del letto, il campanello, gli interruttori della luce e le maniglie delle porte.

L’OSS è tenuto ad osservare con precisione le indicazioni raccomandate per la gestione del paziente infetto.

Deve indossare correttamente i dispositivi di protezione individuale ogniqualvolta entri in contatto con un paziente infetto o presunto tale. Evitando di introdurre nella stanza materiali che non siano strettamente necessari e di preferenza monouso, piuttosto che riutilizzabili previa disinfezione. Dopo le cure igieniche deve provvedere alla sanitizzazione dei punti critici, quindi occuparsi in maniera accurata dello smaltimento dei dpi e dei rifiuti sanitari a rischio infettivo e infine effettuare il lavaggio delle mani o in alternativa la frizione con il gel igienizzante a base di alcool.
Il punto fermo che deve ispirare qualsiasi comportamento è la necessità di evitare quanto più possibile il contagio tra un paziente e l’altro, anche in considerazione del fatto che i trattamenti terapeutici attualmente in uso, a lungo andare possono perdere di efficacia. Una situazione davvero inquietante, che desta non poche preoccupazioni.

A tal proposito, un caso emblematico è quello ascrivibile al batterio Klebsiella Pneumoniae, diventato refrattario perfino ad armi potenti come i carbapenemi.

I carbapenemi sono una classe di antibiotici appartenenti alla famiglia dei beta-lattamici, così chiamati in quanto presentano nella loro struttura un caratteristico anello a quattro atomi, tipico del lattame, un composto organico che si forma per condensazione intramolecolare tra il gruppo amminico e quello carbossilico di un amminoacido. A questa stessa famiglia appartengono anche le penicilline che sono molto affini ai carbapenemi, seppure con qualche differenza sostanziale.

In ambedue l’anello beta-lattamico è unito ad un altro anello a cinque atomi, il nucleo penam o penem a seconda che si riferisca rispettivamente alle penicilline o ai carbapenemi, dove nelle penicilline è presente un atomo di zolfo, mentre nei carbapenemi al posto dell’atomo di zolfo, si trova un atomo di carbonio, da cui deriva appunto il nome carbapenema. Grazie al carbonio, i carbapenemi sono molto più reattivi e quindi più efficaci delle penicilline perché riescono a legare vari tipi di enzimi batterici, causando la morte del batterio.

Gli antibiotici beta-lattamici esplicano la loro azione battericida inibendo la sintesi del peptidoglicano, un elemento fondamentale che costituisce la parete cellulare dei batteri.
Il peptidoglicano, chiamato anche mureina, è un enorme polimero che avvolge il batterio come una specie di recinto, una rete di protezione che ricorda molto la cotta, una particolare maglia di ferro indossata dai guerrieri medievali durante i combattimenti.
È costituito da due zuccheri azotati che si alternano tra di loro a formare delle lunghe catene disposte parallelamente, mentre, collocate trasversalmente, si trovano delle piccole catene di amminoacidi, che si estendono da uno dei due zuccheri e si uniscono alla catena sottostante attraverso legami crociati.

Questi legami, che si creano tra gli amminoacidi delle piccole catene amminoacidiche e precisamente tra il terzo amminoacido della catena precedente e il quarto della catena seguente, sono molto forti e conferiscono a tutta la struttura una grande stabilità. I precursori degli zuccheri si formano nel citoplasma della cellula batterica e da qui, grazie ad un trasportatore di membrana, arrivano alla parete cellulare per essere inseriti nelle catene.
La costruzione della parete batterica si realizza ad opera di diversi enzimi. Alcuni si occupano di preparare il sito per l’inserimento degli zuccheri, altri intervengono nell’allungamento delle catene, altri ancora nell’ispessimento e nel rafforzamento della struttura grazie alla formazione dei legami crociati tra gli amminoacidi.

Ed è proprio a questo livello che gli antibiotici beta-lattamici svolgono la loro azione battericida. Accade che l’enzima preposto alla costruzione del legame crociato si confonda a causa della enorme somiglianza strutturale tra l’anello beta-lattamico e uno dei due amminoacidi da ancorare.
Quindi, al posto dell’amminoacido, lega l’antibiotico che va a bloccare la costruzione del legame crociato e di conseguenza fa crollare l’intera impalcatura.

A lungo andare però il batterio si accorge dell’errore e nella strenua lotta per la sopravvivenza mette in atto vari meccanismi difensivi. Quello più frequente è la produzione di enzimi capaci di idrolizzare l’anello beta-lattamico, cioè letteralmente di scioglierlo e quindi di rompere la struttura dell’antibiotico, rendendolo di fatto inefficace.

Per contrastare questa situazione generalmente ai beta-lattamici si associano altri antibiotici attivi contro gli enzimi beta-lattamasi, come ad esempio l’acido clavulanico. Ciononostante è fondamentale non abbassare mai la guardia: l’arma più affilata per combattere la diffusione delle infezioni rimane sempre la prevenzione.

Antonella Di Noia

#OSSnwes24 - OSS - operatore socio sanitario

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