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L’intelligenza artificiale non sostituirà gli oss nella relazione di cura. Forse…

di Antonella Di Noia 

Fin dai primi esperimenti sull’intelligenza artificiale, l’idea di base che ha spinto ricercatori, aziende e governi ad investire risorse umane ed economiche nell’innovazione tecnologica è stata principalmente quella di migliorare la qualità di vita delle persone. Con questo intento, sono stati sviluppati modelli di macchine in grado di facilitare il lavoro dell’uomo, aiutarlo a svolgere compiti complessi e accelerare alcuni processi che altrimenti avrebbero richiesto tempi molto più lunghi. Il progresso tecnologico ha trasformato radicalmente le società e ha rivoluzionato l’esistenza di ognuno di noi.

Ma se da un lato, grazie ai nuovi dispositivi, alcune categorie professionali hanno potuto beneficiare di importanti prerogative, come la riduzione della mole e del tempo di lavoro, pur continuando a mantenere, anzi, in alcuni casi, ad accrescere il proprio tenore di vita; dall’altro, a causa dell’automazione nei processi produttivi, le macchine, più performanti ed economiche rispetto agli uomini, hanno completamente soppiantato gli esseri umani in attività dove non fosse richiesto un alto livello di istruzione o specializzazione, provocando così una decrescita socio economica dei lavoratori impiegati in quei settori e il loro arretramento verso uno stato di difficoltà, di bisogno e di povertà. 

L’evoluzione tecnologica causa senza dubbio effetti significativi nella vita delle persone. 

Ecco perché, durante le fasi di transizione, ci si chiede se i nuovi sistemi saranno funzionali al benessere psico sociale e alla crescita personale e professionale dell’individuo e della società, se arrecheranno danni e in che misura, se saranno sostenibili da un punto di vista ambientale e relativamente alle risorse economiche da allocare. 

Il dibattito è molto acceso tra chi guarda al progresso con favore, sicuro che questo apporterà numerosi vantaggi, quindi, percepisce la modernizzazione come un fatto positivo e comunque inevitabile e inarrestabile; e chi, invece, cerca di opporsi con ogni mezzo, sentendosi minacciato da qualcosa che non conosce e di cui non si fida, convinto che, a lungo andare, la tecnologia prenderà il sopravvento sull’uomo e lo dominerà a tal punto da renderlo schiavo. 

D’altra parte, non sono preoccupazioni infondate, se si considera che sono stati fatti enormi passi avanti rispetto alle prime “macchine pensanti” messe a punto agli inizi degli anni ’50 del secolo scorso. Oggi stiamo assistendo ad una vera e propria forma di  “umanizzazione” delle macchine che sono progressivamente passate da un linguaggio che permetteva loro di elaborare dati seguendo uno schema di ragionamento analogico, ad una modalità di apprendimento automatico vero e proprio. Questo significa che le macchine, al pari del cervello umano, attraverso vari strati di reti neuronali artificiali, sono arrivate non solo a classificare dati come immagini, testi e audio, ma anche ad apprendere in maniera dinamica e quindi a prendere decisioni. 

La dimostrazione di ciò si è già in parte verificata nel 1997, quando durante un torneo di scacchi a New York, il computer Deep Blue di IBM riuscì ad avere la meglio sul famoso campione di scacchi Garry Kasparov. 

Le macchine, dunque, stanno diventando “intelligenti” come l’uomo o forse più dell’uomo. Oltretutto, una volta perfezionati alcuni software, grazie ai quali saranno capaci di riconoscere la voce di chi sta parlando, di comprendere ciò che viene detto e perfino di esprimersi con un linguaggio naturale, sarà possibile instaurare un dialogo e quindi una relazione tra l’uomo e la macchina. Il futuro è alle porte e si intravede, seppure ancora un po’ in lontananza, una nuova realtà che supera di gran lunga la fantasia. 

Robot dalle fattezze umane che si confonderanno tra le persone vere e si distingueranno da loro per un corpo immutabile che non conoscerà mai i segni del tempo, uno spirito che non sarà minimamente sfiorato da angosce, paure, incertezze e tormenti, una mente pronta a rispondere ad ogni quesito senza alcun tentennamento. Una sorta di semidei voraci di energia, che si prenderanno cura di persone vere e imperfette. Umanoidi che sostituiranno gli umani in contesti delicati, come ospedali e strutture residenziali, per assistere persone fragili, malate e anziane, senza aver mai sperimentato condizioni di sofferenza né sopportato gli affanni della vita. 

Saranno in grado di compenetrarsi per alleggerire il dolore altrui? 

Saranno capaci di attenuare la solitudine con vicinanza, sensibilità e calore umano? 

Sapranno mai amare? 

È ancora troppo presto per dirlo. Quello che invece possiamo affermare con certezza è che l’intelligenza artificiale, in questo momento, è altro rispetto a quella umana. Sostanzialmente perché le macchine “lavorano” ancora a comparti, a moduli, quindi, pur ricevendo e analizzando una grandissima quantità di informazioni, non sono in grado di ragionare, come l’uomo, secondo una visione d’insieme del sé e dell’ambiente circostante.

D’altro canto, l’intelligenza umana è un concetto troppo ampio per essere racchiuso in una scatola di metallo!

Un concetto che non si può neppure spiegare in maniera esaustiva, vista l’impossibilità, almeno per ora, di decifrare i meccanismi che sono alla base della sua creazione. Addirittura, non esiste ancora una definizione unanimemente accettata. 

La stessa etimologia del termine intelligenza, che deriva dal latino intus legere e che significa appunto comprendere in profondità, addentrarsi, non restare in superficie, apre un mondo di possibilità. 

Nel 1994 un gruppo di ricercatori dell’Università del Delaware, capeggiato dalla psicologa Linda S. Gottfredson, propose una definizione, che venne pubblicata qualche anno dopo sulla rivista scientifica Intelligence, e che ancora oggi è abbastanza condivisa. Secondo questi scienziati “L’intelligenza è una capacità mentale generale che, tra le altre cose, include la capacità di ragionamento, pianificazione, risoluzione dei problemi, pensiero astratto, comprensione di idee complesse, apprendimento veloce e acquisizione di insegnamenti attraverso l’esperienza. Non è semplicemente una conoscenza enciclopedica, una particolare competenza scolastica o una abilità nel risolvere test. Piuttosto, riflette una più ampia e più profonda capacità di comprendere l’ambiente circostante, affermandosi, dando un senso alle cose o immaginando come agire”. 

L’intelligenza è tutto questo e molto altro ancora, come viene sottolineato nel passaggio non esattamente ben delineato “tra le altre cose”, che lascia ampio spazio ad ulteriori interpretazioni. Forse, sarebbe più appropriato parlare di intelligenze al plurale, in quanto ogni persona è dotata di una sua propria intelligenza, diversa da quella di tutti gli altri. 

Ogni persona sente e percepisce l’ambiente circostante in modo del tutto autonomo e quindi elabora una realtà che non può essere sovrapponibile a quella di chiunque altro. L’intelligenza non può essere omologata né misurata. Ciò che viene rilevato attraverso alcuni strumenti, come ad esempio il quoziente intellettivo o le scale di valutazione dell’intelligenza, riguarda solo alcuni aspetti, piccole parti di un insieme molto più ampio, sorprendente e imprevedibile. D’altronde quando l’uomo è di fronte a fenomeni tanto complessi, in cui rischia di disorientarsi come in un labirinto, tende a spezzettare, a suddividere, a sezionare, ma così facendo perde di vista l’organicità e la globalità. 

L’intelligenza è sì il risultato di un grande lavoro da parte del cervello, di quasi cento miliardi di neuroni e di trilioni di sinapsi, ma è anche il frutto di relazioni, di reti, di scambi, di connessioni e di comunicazione con tutto il resto del corpo e con il mondo intero. 

Quindi non c’è nulla da temere. L’intelligenza artificiale non ci deve spaventare. In fondo l’unico legame che può farci crescere e stare bene è proprio il rapporto umano. Ma anche la relazione umana per essere davvero appagante deve poggiare su basi solide e imprescindibili come il rispetto, l’empatia, la sensibilità, la gentilezza. 

Agire con gentilezza non vuol dire semplicemente comportarsi in maniera educata, formale e con distacco. Essere gentili significa accogliere l’altro con tutte le sue debolezze, le sue ansie, le sue paure e le sue fragilità. Indica la disponibilità ad alleviare qualche piccola preoccupazione o un malessere momentaneo con azioni sincere e concrete. Esprime la volontà di prendersi cura dell’altro, di ascoltarlo e supportarlo, mettendolo a proprio agio soprattutto quando si mostri in tutta la sua nudità e vulnerabilità. 

La gentilezza è di per sé una cura. È uno stile di vita che apporta benessere mentale e fisico a chi la riceve, ma ancora di più a chi la dona. E poi è contagiosa. Un gesto gentile tira l’altro!

Pertanto, restiamo umani. 

Confidiamo sempre in noi stessi e nella nostra intelligenza. 

Ma soprattutto, alleniamoci di più alla gentilezza! 

Fonte: https://nursetimes.org/lintelligenza-artificiale-non-sostituira-gli-oss-nella-relazione-di-cura-forse/161988

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