È un’esperienza nella quale si mescolano diversi fattori: gli elementi più puramente sensoriali (lo stimolo nocicettivo) si fondono insieme alle componenti più emotive che vanno ad incidere sulla percezione finale del dolore.
Pensiamo ad esempio alla memoria di un’esperienza di dolore precedente: essa può causare un aumento di sensibilità agli stimoli dolorosi, provocando un dolore anticipatorio. L’impulso doloroso parte infatti dalle strutture periferiche interessate che lo generano, attraversa vari livelli del sistema nervoso per poi infine arrivare alle sedi che ne danno l’interpretazione.
La sua percezione è caratterizzata da un’ampia variabilità individuale, dovuta sia a differenze genetiche relativamente che relativamente a sensibilità e tolleranza al dolore stesso, sia a fattori psicosociali, come l’ansia, la preoccupazione, il substrato culturale e le precedenti esperienze dolorose. La comparsa di un dolore si accompagna alla sua valenza di sofferenza e preoccupazione, che incide sulla qualità della vita del paziente stesso ma anche dei suoi familiari i quali vengono indirettamente coinvolti nel pensiero che la sintomatologia possa essere il segnale di una patologia di cui ancora non si individuano esattamente i termini.
Il dolore acuto è rappresentato dalla funzione di avvisare l’individuo della lesione in corso, ha una causa identificabile (intervento chirurgico, trauma, malattia infettiva), è localizzato, dura alcuni giorni, diminuisce con il passare del tempo e col processo di guarigione. Esso si controlla piuttosto facilmente, con terapie farmacologica con buona riposta nella maggior parte dei casi.
Il confine tra il dolore cronico clinico, caratterizzato da parametri facilmente individuabili che lo rendano curabile, e il dolore cronico, influenzato da componenti emotive e psicologiche, è molto sottile. Esso infatti è un dolore che ha un’importante componente psicologica, in quanto molto spesso limita la qualità della vita e l’aspetto relazionale della vita del paziente. Accompagna malattie del tipo reumatico, degenerative, metaboliche, oncologiche. La sua terapia è spesso frutto di interventi multidisciplinari ad elevato livello di specializzazione.
Il dolore da procedura si concretizza quando è indispensabile affrontare procedure invasive diagnostiche e/o terapeutiche e l’invasività della manovra stessa non è adeguatamente gestita con una copertura antalgica. Le procedure possono essere semplici o minori (venipunture, rachicentesi, prelievo di midollo, biopsie cutanee),manovre complesse e maggiormente invasive procedure maggiori (posizionamento di cateteri centrali, drenaggi, biopsie ossee, renali ed epatiche, medicazioni e piccola chirurgica, procedure odontoiatriche) e manovre endoscopiche (gastroscopie, broncolaringoscopie, procedure odontoiatriche) e manovre endoscopiche (gastroscopie, bronco laringoscopie, colonscopie).
Grazie alla disponibilità di farmaci sedativi ed analgesici a breve durata d’azione, alla validazione di protocolli d’intervento farmacologico e all’uso di metodiche di monitoraggio sicure e non invasive si può oggi garantire la sicurezza dell’intervento ed un monitoraggio efficace, specialmente in ambito pediatrico.
La scelta è fatta in base alla tipologia della procedura eseguita ed alle caratteristiche cliniche ed individuali del paziente.
Definizione
Il dolore post- operatorio può insorgere in seguito ad una procedura chirurgica ed è la risposta complessa al trauma causato dall’atto chirurgico che induce una forte ipersensibilità del sistema nervoso centrale. Il risultato, infatti, è un dolore, più o meno intenso, che può presentarsi anche nelle zone non direttamente coinvolte nell’intervento.
Esso va ad influenzare direttamente il processo di guarigione del paziente e può favorire il rischio di complicazione post-intervento, interferendo con il recupero e il ritorno del paziente alla normale vita relazionale. Le attività che favoriscono la guarigione, infatti, come il movimento e dalla possibilità di mangiare normalmente e dormire bene, vengono tutte inibite dalla presenza di dolore.
Anche la percezione del dolore postoperatorio è altamente soggettiva, per questo i sanitari dovrebbero attuare le misure per attenuare il dolore con l’utilizzo di analgesico adeguandole all’intensità riportata da ogni singolo utente che può essere correttamente valutata con l’uso di apposite scale. Un’attenta gestione del dolore postoperatorio è essenziale ed è considerata un diritto fondamentale dell’assistito.
Il dolore post-operatorio è un dolore acuto, essendo infatti direttamente correlato ad un danno tissutale, insorge rapidamente e ha durata limitata nel tempo. Ad una iniziale fase di iperalgesia primaria,dovuta alla liberazione di diverse sostanze algogene da parte delle cellule danneggiate, segue una risposta secondaria che comprende modifiche del sistema nervoso centrale, responsabili di dolore in regioni, come abbiamo anticipato, anche diverse da quelle direttamente coinvolte nell’intervento e che possono persistere anche per parecchi giorni dopo il trauma.
Nel periodo posto-peratorio il dolore deve essere valutato più volta al giorno, all’insorgere di ogni nuovo episodio di dolore e dopo la somministrazione di un farmaco per il controllo del dolore. I metodi di valutazione possono essere sia soggettivi che oggettivi.
Esistono diverse scale di valutazione del dolore. In particolare, le linee guida della SIAARTI raccomandando di utilizzare strumenti di valutazione semplici e in particolare consigliano:
Occorre poi tenere conto delle diverse condizioni di partenza del paziente operato: ad esempio, nell’utente anziano la soglia del dolore può risultare ridotta, così come la tolleranza al dolore. Sopra i 65 anni se il soggetto è collaborante si raccomanda di utilizzare la scala semantica semplice per la misura del dolore (assente, lieve, moderato, severo); se invece il soggetto non è collaborante occorre valutare il dolore prendendo in esame misure neuro comportamentali.
La legge prevede per chi soffre di dolore vengano attivati dei percorsi di cure palliative, terapie del dolore e assistenza domiciliare con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita di chi soffre per gli effetti di patologie oncologiche o infiammazioni muscolo-scheletriche che provocano una sofferenza fisica costante.
Nel D.P.C.M 12 -1-2017 nuovi livelli essenziali di assistenza (LEA), dunque tra le prestazioni accessibili da tutti gli assistiti, è stata inserita anche la terapia del dolore, sia a livello domiciliare che come specializzazione; inoltre; essa è stata resa obbligatoria in regime di ricovero. La terapia del dolore, indipendentemente dalla patologia scatenante e dal tipo di dolore, prevede, al fine della stesura di un programma antalgico, un approccio che realizzi un intervento globale che preveda il ricorso a terapie farmacologiche e non.
I farmaci attualmente indicati nella gestione del dolore appartengono a diverse categorie:
Studi farmacologia e farmacodinamica hanno puntualizzato indicazioni e limiti di questi farmaci: L’OMS ha stabilito una scala graduata d’interventi in base alle caratteristiche e all’entità del dolore; le paure legate alla dipendenza ed alla tolleranza dai farmaci narcotici sono state ridimensionate; le indicazioni all’uso dei FANS (Farmaci antinfiammatori non steroidei) sono state puntualizzate e la positività dell’uso dei farmaci adiuvanti è stata confermata.
La strategia terapeutica utilizzata dipende da molti fattori, comprendenti i’eziologia e l’entità del dolore, la durata prevista della terapia, le condizioni cliniche generali del paziente e la sua capacità di adattamento ad un determinato programma terapeutico.
Essa comprende differenti tipologie d’intervento, alcuni dei quali agiscono sui sistemi sensitivi che bloccano la progressione dello stimolo doloroso, altri attivano i meccanismi nervosi centrali e/o periferici che inibiscono la nocicezione. In base alla metodologia d’intervento si possono suddividere metodi psicologici (di supporto, cognitivi e comportamentali) e fisici (agropuntura, massaggio, fisioterapia, tecniche di rilassamento)
Anche apparentemente banali interventi distruttori, come spostare l’attenzione su di una lettura o sulla visione di un film sono consigliati nelle Linee guida. È proprio in questo tipo di interventi che l’apporto degli operatori socio sanitari può essere fondamentale: la loro attività infatti è prevalentemente collegata all’aspetto aiuto nella gestione del dolore, più che dal punto di vista strettamente farmacologico di competenza dell’infermiere e del medico, nell’ambito degli interventi non farmacologici.
Consiste nell’auto-somministrazione del farmaco antalgico cui il paziente può accedere in maniera autonoma. Esso si basa sul dato secondo il quale il farmaco analgesico è più efficace se viene somministrato subito, nell’immediatezza dell’insorgenza del dolore; non solo ma si assumo anche meno farmaci rispetto al calendario di somministrazione fisso.
Il paziente dovrebbe essere sempre monitorato e tenuto sotto controllo, ma può somministrare autonomamente, con qualunque metodo di somministrazione, una dose aggiuntiva di analgesico in caso dell’aumento di dolore, entro i limiti stabiliti dal personale infermieristico e medico. Esistono diversi sistemi, uno di questi è la PCA che si utilizza tramite una flebo ad orario fissi, con ago sottocutaneo o catetere collegato ad una pompa e anche a seguito di attivazione del paziente tramite un pulsante di comando. Essi trova impiego nei casi di dolore post-operatorio, in ambito traumatologico, travaglio ostetrico, per malattie oncologiche fino allo stadio terminale.
La rete delle cosiddette cure palliative è costituita sul modello organizzativo delle reti cliniche integrate che prevede un numero ristretto di centri di eccellenza (HUB), nei quali concentrare i casi di gestione più complessa, preposti ad erogare interventi diagnostici e terapeutici ad alta complessità e una rete di supporto composta di centri di terapia del dolore territoriali (centri SPOKE) che operano invece attraverso l’erogazione di servizi in regime ambulatoriale.
I requisiti che devono caratterizzare un centro di terapia del dolore ospedaliero e un centro di terapia del dolore territoriale sono stati definiti con l’intesa del 25-7-2012, in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale. Il documento è stato condiviso da tutte le regioni che si sono così impegnate a recepirlo con atto formale, e successivamente identificano i centri HUB e SPOKE attivi sul territorio, al fine di realizzare il percorso verso un sempre maggiore implementazione delle reti a livello regionale, un processo virtuoso che deve partire dalla diagnosi precoce da parte del medico di medicina generale, che consenta di indirizzare tempestivamente il paziente verso il centro più appropriato secondo i percorsi diagnostico-terapeutici fondati sulle evidenze scientifiche.
Scopo della rete e quello di prendere in carico e indirizzare il paziente con dolore, individuando e gestendo il percorso assistenziale secondo specifiche linee guida e protocolli.
Viene considerato “terminale” il paziente affetto da una malattia con prognosi per il quale non è evitabile la morte è un evento inevitabile in tempi relativamente brevi. In questa fase qualsiasi terapia risulta inefficace allo scopo precipuo (che si prende prima o anticipare) della guarigione.
Il fine delle cure palliative è quello di migliorare la qualità di vita dell’assistito in fase morente anziché accanirsi verso un’idea di sopravvivenza, assicurando ai pazienti e alle loro famiglie un’esistenza continuativa e globale.
Il confine tra il periodo in cui l’individuo continua a vivere nonostante la malattia e le limitazioni che essa comporta e la fase in cui si avvicina sempre più la fine non è facilmente identificabile, non esistendo dei parametri di riferimento netti. D’altro canto, dal punto di vista psicologico emerge nella mente dell’ammalato e dei suoi familiari la consapevolezza che la conseguenza possibile della malattia, non guarendo il paziente, sia la morte.
Tale affermazione non muta il naturale percorso delle cose, ma consente di cominciare un percorso di avvicinamento tra la famiglia, il paziente e le strutture di cure palliative, seppure in una fase primaria poiché non consente di tracciare ancora una precisa linea operativa e organizzativa delle cure. E fondamentale a tale proposito conoscere più che il tipo di patologia da cui il paziente è affetto, lo stadio in cui si trova, applicando dei criteri generali per procedere all’inizio delle cure tecnicamente più appropriate.
Le cure palliative possono essere prestate a domicilio o anche presso gli hospice che rappresentano le strutture dedicate per rendere il miglior servizio assistenziale possibile all’utente nell’ultima fase della sua vita.
La filosofia che caratterizza gli hospice si basa:
Infatti, la struttura dell’hospice che garantisce assistenza specializzata h 24, è organizza tale da consentire ai famigliari di pernottare con il paziente e di cucinare per lui, prevedendo appositi spazi, personalizzando anche gli ambienti (letti e materassi speciali etc.).
La morte è un momento preciso dell’esistenza biologica ma è anche un evento culturale che viene trasmesso, prima che vissuto, nell’immaginario collettivo. Generalmente, ciò che fa paura e trasmette angoscia, è più che l’evento morte, il processo del morire, sia dal punto di vista fisico (il dolore e la sofferenza) sia dal punto di vista psicologico ( privazione degli affetti, dei beni materiali).
In caso di malattia irreversibile, la paura del distacco si materializza ed essa appartiene non solo al singolo individuo, ma anche ai suoi familiari. Tra i compiti dell’OSS rientrano anche quelli collegati alla gestione del conforto con le situazioni connesse al delicato momento della morte. La psicologia del morente è stata oggetto di studio da parte della studiosa E.K.Ross che ne ha distinto cinque fasi.
Essa si caratterizza per una reazione simile al panico durante la quale il paziente cerca di allontanare da sé il pensiero dell’evento, negandola o sminuendola. All’atteggiamento di negazione si accompagna l’isolamento, il rifiuto delle cure o la trascuratezza delle stesse, prevalentemente nelle persone giovani; spesso i familiari tendono a rafforzare questa fase, alimentando il silenzio.
Il paziente terminale sembra volere rassicurazioni rispetto al fatto di non essere dimenticato, vivendo con rabbia la propria sorte, manifestando pretese di attenzione, poiché realizza che il suo progetto di vita sta giungendo sta giungendo al termine.
In questa fase è come se il paziente avesse cominciato a realizzare la sua condizione, ma rimanda l’inevitabile con il pensiero attraverso un atteggiamento regressivo quasi infantile cercando una sorta di compromesso con il proprio destino. Ha consapevolezza di avere un limite di tempo, emerge una certa spiritualità.
È il fisico che comincia a prevalere sulla mente, il paziente sprofonda nel mutismo e nel torpore, si perdono le funzioni fisiche e altre capacità funzionali, per cui il paziente cade nella depressione di tipo reattivo e di tipo preparatorio, legata al sentimento di perdita del controllo del proprio corpo e di tutto se stesso.
Il supporto psicologico nella prima fase è utile poiché può dare rassicurazioni e maggiore attenzione nei confronti dei problemi concreti che la situazione comporta, date le limitazioni, fisiche oggettive. Nella seconda, invece, è opportuno che quel tipo di depressione si evolve nel silenzio, e che si esprima attraverso il dolore, per prepararsi ala fine di tutto ciò che si ha e a cui si è legati, ciò si rivela beneficio per la persona.
Terminato il combattimento, la stanchezza e l’assopimento sono frequenti, il contatto con la realtà diventa frammentario, possono accadere fenomeni allucinogeni, con ricordi del passato significativi, il paziente desidera stare tranquillo con visite limitate ai familiari che ha piacere di vedere. In genere quando si incontra l’utente, a causa del meccanismo dell’identificazione può sorgere un sentimento di angoscia profonda che può colpire anche le persone di famiglia che se ne prendono cure e che sono più coinvolte emotivamente.
Chi si identifica in maniera massiccia rischia di sviluppare sentimenti depressivi. Un altro tipo di reazione e l’elevato tecnicismo con il quale si affronta l’argomento. Al fine di affrontare la morte dell’altro nella maniera più equilibrata possibile per sé e utile per il morente, per condividerla, è necessario dentro di sé elaborare l’evento della propria morte a livello culturale e psicologico.
Il lutto è la separazione delle cose sulle quali si sono fatti degli investimenti. Per evitare di soffrire la persona tende ad aggrapparsi all’oggetto del suo amore, negandone la perdita. In quella fase è necessario, che se il dolore non si libera, con la sofferenza, non può esserci separazione e l’animo rimane legato all’oggetto perduto, togliendosi la possibilità di intraprendere altre relazioni e chiudendosi in se stessa. La negazione è una forma di difesa contro la sofferenza e il dolore.
Ognuno con i propri tempi, si incomincia a comprendere la realtà, con crisi di pianto e turbamenti: ciò è fondamentale affinché si dai libero sfogo alle proprie emozioni, liberando la disperazione e la rabbia. Inutile dire che non è utile l’atteggiamento di richiamare la persona alla realtà perché chi sta vivendo lutto è consapevole della perdita.
Tali meccanismi psicologici sono particolarmente importanti per l’operatore socio-sanitario che si trova abitualmente a dover confrontarsi con situazioni simili; riconoscendoli, potrà assumere un atteggiamento adeguato per favorire i processi psicologici accennati e quindi i processi di adattamento alla realtà.
Redazione OssNews24
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