Per secoli la condizione dei portatori di handicap ha rispecchiato un modello di società in cui la menomazione viene considerato un male da nascondere, espressione della punizione divina e marchio dell’infamia. Il termine handicap è stato a lungo sinonimo di menomazione, minorazione e disabilità, contribuendo a determinare una classifica sociale che ha finito per creare una discriminazione tra le persone <<normali>> e <<anormali>>. La menomazione fisica, interpretata come la negazione delle abilità indispensabili all’uomo per garantire la propria autonomia, è diventata, di conseguenza, fattore discriminante nell’integrazione sociale e forte motivo di emarginazione.
Sono in principi sanciti dalla rivoluzione francese, con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, a stabilire per la prima volta il diritto dell’uguaglianza per tutti gli uomini, a prescindere dal ceto sociale, dal sesso, e dalla razza, dalle condizioni fisiche e psichiche. Tra Otto e Novecento, in Italia, l’educazione del diversamente abile avviene in strutture speciali gestite dai Comuni, con una loro autonomia nel settore scolastico.
Nel ventennio fascista i bambini portatori di handicap vengono sottratti alle famiglie e destinati ad appositi istituti riabilitativi. All’educazione e all’inserimento scolastico si sostituisce, cosi, il principio della medicalizzazione, che finisce però col collocare i soggetti <<diversamente abili>>ai margini della società. L’handicap, insomma, viene considerato una vera e propria malattia.
Il primo documento ad affermare i diritti dei diversamente abili nel nostro Paese è stata la Costituzione, che con gli articoli 3,34,e36 stabilisce l’uguaglianza, il diritto allo studio da parte di tutti i cittadini e definisce i compiti dello stato nel rimuovere ogni tipo di ostacolo alla piena affermazione del cittadino. All’articolo 3, in particolare, si legge che <<tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali>>.
Nel 1959 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con la Dichiarazione dei diritti del Fanciullo, stabilisce che <<ogni bambino con menomazione fisica, mentale e sociale, ha diritto di ricevere il trattamento, l’educazione e le cure speciali di cui ha bisogno per il suo stato e la sua condizione sociale>>. Tra il 1960 e 1970 si assiste alla cosiddetta istituzionalizzazione dei soggetti portatori di handicap,con la conseguente emarginazione mediante il ricovero in istituti riabilitativi.
Dal 1968 la <<diversità>> comincia a essere considerata una risorsa da riconoscere e integrare socialmente sulla scia dei principi di uguaglianza sociale, recuperando la dignità dei soggetti portatori di handicap con il loro graduale inserimento nella scuola e nella vita sociale e lavorativa. Nel 1971, con la legge 118, in favore degli invalidi e mutilati civili, si realizza nel nostro paese una svolta nel processo d’integrazione, con l’eliminazione in tutti gli uffici pubblici, nelle scuole e nelle istituzioni d’interesse sociale delle <<barriere architettoniche>>, prevedendo norme sul trasporto, sul lavoro, sulla prevenzione e sulla riabilitazione dei soggetti con disabilità.
L’Assemblea Generale dell’ONU del 20 dicembre 1971 ha proclamato il diritto del subnormale mentale alle cure mediche e alle terapie più appropriate al suo stato, nonché all’educazione, all’istruzione, alla formazione, alla riabilitazione, e alla consulenza che aiuteranno il soggetto diversamente abile a sviluppare al massimo le sue capacità e attitudini. Nel 1986, a Gerusalemme, la Lega internazionale delle associazioni in favore dei disadattati, ribadendo il concetto che nessuna persona mentalmente disadattata, deve essere esclusa dalle del suo stato a causa delle spese che comporterebbero, ne ha confermato il diritto a ricevere le dovute cure, il trattamento, l’educazione e l’istruzione necessari alla sua condizione in vista della guarigione più completa possibile, qualsiasi sia il grado di deficienza o incapacità del l’individuo.
L’OSS e la classificazione di menomazione, disabilità e handicap
Nel 1980 L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato un documento International Calassification of Impairments, Disabilities and Handicaps (ICIDH) per definire, appunto, la <<menomazione>>, la <<disabilità>> e l’ <<handicap>>.
In base al documento dell’ICIDH, si distingue in riferimento alla problematica specifica menomazioni:
In quanto perdita dell’efficacia fisica di una persona, la <<menomazione>> (in inglese impariment) viene descritta nell’International Cassfication of Impairments, Disabilities and Handicaps (ICIDH) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità come l’esteriorizzazione di uno stato patologico. Nell’ambito delle conoscenze e delle opere sanitarie, invece, l’OMS intende per menomazione qualsiasi perdita o anomalia a carico di strutture o funzioni psicologiche, fisiologiche, o anatomiche della persona.
Se la menomazione si riferisce alla tipologia strutturale e funzionale del danno o del fenomeno anomalo, la <<disabilità>> riguarda l’incapacità o riduzione di compiere quel gesto o attività causata dalla patologia. Le disabilità possono avere un carattere transitorio o permanente ed essere reversibili o irreversibili, progressive o regressive. Possono insorgere come conseguenza diretta di una menomazione o come reazione psicologica del soggetto a una menomazione e sono la manifestazione di un <<fare>>e di <<agire>>che si differenzia, per eccesso o per difetto, dai comportamenti degli altri individui.
Esempi di disabilità sono i disturbi e le difficoltà riscontrate che impegnano la persona nelle azioni di vita quotidiana, come, ad esempio, la capacità di lavarsi le mani, di alimentarsi o di camminare.
In rapporto alla classificazione ICIDH, le disabilità si distinguono:
Il documento di classificazione ICIDH, distingue le varie tipologie di handicap tra:
Il 22 gennaio 2001 è stata approvata dal Comitato Esecutivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dopo essere stata accettata da 191 Nazioni, una risoluzione che invitava tutti i Paesi ad adottare una nuova classificazione, dal titolo International Classification Of Functioning , Disability and Health (ICF), che ha ulteriormente cambiato l’approccio al problema della disabilità, partendo dalla definizione di stato di salute della persona per associarvi un deficit, superando definitivamente il concetto di handicap.
Nella classificazione ICF, infatti, la disabilità viene intesa quale conseguenza di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo, fattori personali e fattori ambientali che rappresentano in un ambiente con caratteristiche che possono limitare le proprie capacità funzionali e di partecipazione sociale.
L’ICF, collegando il fattore ambientale allo stato di salute della persona, promuove un modo di misurazione della salute, delle capacità e delle difficoltà nella realizzazione di attività che permettono di individuare gli ostacoli da rimuovere o gli interventi da effettuare affinché la persona possa raggiungere il massimo grado di realizzazione personale.
L’’ICF è suddiviso in due parti principali:
Parte 1- Funzionamento e Disabilità
Parte 2- Fattori contestuali.
Ogni parte è formata da due componenti:
Parte 1 Funzionamento e Disabilità
Parte 2 Fattori contestuali:
Il modello concettuale alla base della classificazione prevede le che componenti citate interagiscano tra loro sul presupposto delle condizioni di salute (disturbo/malattia): funzioni e strutture corporee, attività , partecipazione sociale e vengono influenzati da fattori ambientali e personali in modo da determinare il grado di disabilità del soggetto in relazione al caso specifico.
L’OSS e il supporto alla famiglia con paziente disabile
Le disabilità
La persona presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa ed è tale da determinare uno svantaggio sociale o, alle volte arrivare, anche all’emarginazione.
In realtà questa è una definizione di carattere estremamente generale, in considerazione del fatto che esistono numerose forme di disabilità ognuna delle quali necessità di uno specifico trattamento a livello clinico, a livello di integrazione sociale ed a livello assistenziale.
L’elenco delle diverse forme di disabilita ci aiuterà a comprenderne meglio la questione.
Le disabilità si suddividono in:
L’epilessia indica un danno celebrale rilevabile mediante l’elettroencefalogramma. Consiste in una scarica violenta di alcune cellule nervose, per cui l’organismo manifesta un’interruzione temporanea delle coscienza cui può far seguito la contrazione di alcuni muscoli. È per questo che l’operatore, nella gestione del momento in cui avviene la crisi epilettica dovrà fare in modo che non si ferisca, involontariamente, ma senza contenerla.
L’autismo si manifesta in comportamenti caratteristici dell’individuo che cerca di eludere il contatto interpersonale, sia a livello di sguardo che e di comunicazione verbale. Il soggetto autistico appare piuttosto interessato alla manipolazione automatica e ripetitiva di oggetti.
L’Oss e il supporto alla famiglia con paziente disabile
In questo caso l’empatica e l’aiuto, risultano due elementi indispensabili da parte dell’operatore socio-sanitario, nel supportare e comprendere cosa significa per una famiglia ,affrontare la notizia della disabilità di un figlio o di un parente stretto costituisce una forma di sostegno basilare, per addentrarsi al meglio nella complessità dei fattori che definiscono il contesto ambientale in cui avviene l’incontro con la persona disabile.
Questo ci aiuta quindi anche a capire come si <<crea>> come si <<genera>> a contatto con gli altri l’immagine che il disabile ha di sé. Sappiamo infatti che la costruzione dell’ <<identità>> personale è naturalmente mediata dal rapporto con il contesto psico-sociale di appartenenza: la percezione di <<essere se stessi>> si collega sempre in stretta relazione con l’insieme di immagini, di interpretazioni, di percezioni che l’ambiente in ci viviamo (sia esso familiare, affettivo, scolastico o genericamente sociale).
In buona sostanza la costruzione del nostro universo caratteriale viene condizionata dalla risposta data dall’ambiente in cui viviamo.
Secondo alcuni studi la reazione dei genitori quando scoprono di essere venuti a conoscenza della disabilità di un loro figlio suscita qualcosa simile a ciò che ci colpisce dinanzi ala morte di una persona amata: incredulità, rabbia, rivendicazione, risentimento, spesso si prova anche senso di colpa. Nell’istante in cui ci arriva questa triste notizia nella nostra mente si materializza un vero e proprio processo di lutto. Quando nasce un bambino <<con problemi>>, il processo per l’auto-accettazioni dell’evento che si è verificato si manifesta in modo molto più evidente.
La famiglia, di fronte all’evento, porta con sé l’esigenza di ritagliarsi uno spazio autonomo, un luogo dedicato a vivere intensamente ed elaborare a fondo il processo di lutto: una necessità quasi sempre trascurata perché troppo spesso tralasciata dall’urgenza prioritaria di <<occuparsi>> del figlio disabile.
Alcuni studiosi individuano quattro stadi o fasi di crisi, che in relazione di come vengono vissute dai genitori, possono rendere l’elaborazione della notizia ricevuta come un processo meno drammatico in certi casi persino positivo (alcuni psicologi ritengono il superamento riuscito del <<lutto>> possa produrre una sorta di effetto <<generatore a vita>>.
Prima Fase. L’impatto. La scoperta o la notizia di una disabilità risulta sempre traumatica; anche in alcuni casi in cui l’evento sia in qualche modo atteso o presagito. Generalmente, la sensazione narrata dai familiari di un soggetto colpito da disabilità improvvisa è quella di una catastrofe immotivata, di una rottura profonda degli schemi abituali di interpretazione della quotidianità, di un disorientamento generale .
Si tratta di una risposta emotiva che può essere attenuata o intensificata in ragione delle modalità attraverso le quali se ne viene a conoscenza della diagnosi. Come logico che sia, si tratta di momenti estremamente delicati, troppo spesso sottovalutati dal personale medico-sanitario cui è delegato l’aspetto comunicativo (<<dare la notizia>>) e diagnostico (esprimere in un certo senso un <<verdetto>>);
Seconda fase. La negazione. Molto spesso è una diretta conseguenza della prima fase: L’evento viene decisamente <<rimosso>>, soprattutto nella frenetica consultazione di presso altri centri specialistici, altri medici e altre strutture nella speranza di essere caduti in un errore di valutazione o di una diagnosi meno negativa. Si tratta di una reazione che sfiora la sospensione del principio di realtà da parte dei genitori: si spera nel cosiddetto <<miracolo>>, ci si rivolge a soggetti o istituzioni alternative.
I singoli vissuti mutano naturalmente in base alla tipologia di deficit riscontrato: sensazioni di rabbia, colpevolezza, risentimento e negazione possono essere orientate diversamente se ci si convince di essere direttamente resposabili (ad esmpio, <<portatori sani>> di un virus o di un deficit genetico) dello stato di futuro handicap del proprio figlio, o se si è invece subito – insieme al figlio stesso – un intervento da parte di terzi (es. un errore di valutazione da parte del medico nell’esprimere la diagnosi) che ha provocato l’insorgere della patologia:
Terza Fase. La percezione del dolore: È il momento in cui prevale la consapevolezza d’irreversibilità dell’evento negativo. È sicuramente la fase più decisiva dell’intero processo di elaborazione dell’evento accaduto: in ragione delle modalità nelle quali viene percepita ed elaborata l’angoscia di fronte all’episodio che si è verificato, il processo può avviarsi positivamente verso un elaborazione risolutiva oppure fallire, mandando in frantumi l’intera condizione esistenziale del nucleo familiare. Possiamo considerarlo il momento della percezione reale dell’evento avverso che può essere recepito dal punto di vista emotivo in modalità differente anche in base alle condizioni e al contesto nel quale avviene.
Quarta Fase. La reazione attiva: Si tratta di una fase che ( come la seconda rispetto alla prima) è ampiamente determinata dalle modalità di reazione a quella precedente. Essa implica la ricerca di una condivisione esterna del proprio destino di genitori. Probabilmente è la fase in cui cessa definitivamente il continuo interrogarsi circa le cause dell’avvenuta nascita della disabilità nel proprio figlio e si inizia ad interpretare il deficit come condizione esistenziale, come parte della vita.
Proprio in relazione a quest’ultimo stadio, va notato come la possibilità di condivisione della fase di dolore indichi una capacità di elaborare proficuamente il lutto e quindi ridefinire un diverso equilibrio familiare, che permetta anche al soggetto disabile di accettare la sua condizione di persona oltre il proprio deficit. La famiglia sembra in realtà essere il primo contesto da dover sostenere in relazione all’evento: non solo in termini terapeutici, concretamente in termini pedagogici; ovvero creando, nelle diverse fasi, dei contesti in cui sia possibile fare esperienza del proprio dolore, elaborarne il senso, riconnetterlo alla vita stessa, essere maggiormente consapevoli dei cambiamenti da esso causati e quindi poter accettare con più serenità la propria esistenza e quella del figlio. Spazio di conforto e spazi di pensiero son dunque in grado di sviluppare una presa di coscienza critica delle rappresentazioni sociali e culturali negative (stereotipi, pregiudizi).
Gli obbiettivi di tutela della L.104/1992
Con l’entrata in vigore della L.5-2-1992, n 104, è stata introdotta nel nostro ordinamento la normativa quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone diversamente abili.
Al tal fine la Repubblica, in rispetto ai principi sanciti dalla nostra Carta costituzionale, garantisce il pieno rispetto della dignità umana e i diritti di libertà e di autonomia della persona disabile promuovendone la piena integrazione familiare, scolastica, lavorativa e sociale, nonché rimuovendo le condizioni invalidanti che impediscono lo sviluppo della persona umana.
Gli oggettivi enunciati in precedenza sono stati perseguiti attraverso:
L’OSS e l’inserimento e l’integrazione sociale del soggetto con disabilità
L’inserimento e l’integrazione sociale della persona disabile si realizzano attraverso:
L’OSS e l’assistenza sanitaria al paziente con disabilità
La cura e la riabilitazione della persona con disabilità si realizza con programmi che prevedono prestazioni sanitarie e sociali integrate tra loro (cosiddetta integrazione socio-sanitaria ai sensi del D.P.C.M. 14-2-2001), che valorizzano le abilità di ogni persona disabile e agiscono sulla globalità della situazione di disabilità, coinvolgendo la famiglia e la comunità.
A tale scopo il SSN, attraverso le strutture proprie dedicate o convenzionate con garantisce ai disabili fisici, psichici e sensoriali:
Tra le principali, la riclassificazione della sindrome di Down, fino ad oggi considerata <<malattia rara>>, il che ha determinato l’estensione totale dal pagamento del ticket per le prestazioni sanitarie inerenti al patologia, come “malattia cronica”, con la conseguenza di restringere il riconoscimento dell’esenzione totale solo a coloro che hanno un’invalidità certificata al 100%.
Le persone con autismo avranno accesso alle cure più avanzate; in particolare, è prevista una maggiore collaborazione tra assistenza sanitaria, scuola e famiglia al fine di favorire l’inserimento e l’integrazione del bambino autistico nella vita sociale.
Inoltre, i nuovi LEA ridefiniscono il nomenclatore protesico, ciè la protesi gli ausili prescrivibili a carico, totalmente o parzialmente, del SSN per migliorare la qualità della vita delle persone con disabilità.
Le dotazioni di strumentazione o attrezzature prescrivibili sono:
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